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Non basta trasferire la sede sociale all’estero per evitare la dichiarazione di fallimento

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La Corte di Cassazione conferma il consolidato orientamento secondo cui competenti ad aprire la procedura di insolvenza sono i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore.

Per evitare il fallimento dunque non è sufficiente trasferire all’estero la sede legale, mantenendo in Italia l’attività principale.

Per le società e le persone giuridiche infatti si presume che il centro degli interessi coincida con il luogo in cui si trova la sede statutaria.

Tuttavia quando risulti accertata una discrepanza tra sede legale e sede effettiva, è l’ubicazione di quest’ultima a dover prevalere ed a costituire il criterio determinante della giurisdizione.

Sussiste, dunque, pacificamente la giurisdizione del giudice italiano sull’istanza di fallimento nei confronti di una società di capitali, già costituita in Italia, se al suo spostamento della sede legale all’estero, non ha fatto seguito anche il trasferimento effettivo dell’attività imprenditoriale, sì da risolversi in un atto meramente formale.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 9 maggio – 16 giugno 2017, n. 14984
Presidente Didone – Relatore Fichera
Fatti di causa

La Corte d’appello di Roma, con sentenza depositata il 19 luglio 2012, ha respinto il reclamo proposto da G.G. e C. , soci della (omissis) s.r.l., avverso la sentenza dichiarativa del fallimento di quest’ultima, pronunciata dal Tribunale di Roma il precedente 6 settembre 2011.
Ha ritenuto il giudice del reclamo che il ricorso per la dichiarazione di fallimento riproposto dal pubblico ministero fosse ammissibile, anche dopo un provvedimento di rigetto della precedente istanza adottato dal tribunale.
Ha poi soggiunto che sussisteva la giurisdizione del giudice italiano, essendosi palesato fittizio il trasferimento della sede della società fallita in Bulgaria, iscritto nel registro delle imprese il 19 ottobre 2006, né potendosi ritenere ormai decorso l’anno dalla cancellazione della società dal registro delle imprese, avendo disposto il competente giudice del registro, con decreto iscritto in data 5 ottobre 2011 e non impugnato, la cancellazione della detta annotazione.
G.G. e C. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui resiste con controricorso il fallimento della (omissis) s.r.l..
Il Primo presidente ha assegnato alla sezione la trattazione della questione di giurisdizione, ai sensi dell’art. 374, comma primo, c.p.c..

I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo deducono i ricorrenti violazione dell’art. 22 l.fall., poiché la corte d’appello non ha rilevato l’inammissibilità dell’istanza di fallimento avanzata dal pubblico ministero, in precedenza già respinta dal tribunale.
Con il secondo motivo assumono vizio di motivazione ex art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c., avendo il giudice di merito erroneamente affermato che gli istanti non avrebbero contestato la fittizietà del trasferimento della sede legale della società fallita.
Con il terzo motivo rilevano la violazione dell’art. 3 del regolamento CE n. 1346 del 2000, per avere la corte d’appello erroneamente respinto l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice italiano, stante l’avvenuto trasferimento della società fallita in Bulgaria.
Con il quarto motivo deducono violazione dell’art. 10 l.fall. e dell’art. 2191 c.c., poiché a seguito del trasferimento all’estero la società fallita risultava cancellata da oltre un anno dal registro delle imprese italiano, essendo peraltro il provvedimento del giudice del registro, che ha ordinato la cancellazione della precedente cancellazione, solo successivo alla sua dichiarazione di fallimento.
2. Il primo motivo è infondato.
E invero il provvedimento di rigetto dell’istanza di fallimento è privo di attitudine al giudicato e non è quindi configurabile una preclusione da cosa giudicata, bensì una mera preclusione di fatto, in ordine al credito fatto valere, alla qualità di soggetto fallibile in capo al debitore ed allo stato di insolvenza dello stesso, di modo che è possibile, dopo il rigetto, dichiarare il fallimento sulla base della medesima situazione, su istanza di un diverso creditore ovvero sulla base di elementi sopravvenuti, preesistenti ma non dedotti e anche di prospettazione identica a quella respinta, su istanza del medesimo creditore (Cass. 21/12/2010, n. 25818; Cass. 14/10/2009, n. 21834).
Del resto, a corollario di quanto detto sopra, questa Corte ha sempre affermato che il decreto di rigetto dell’istanza di fallimento non è ricorribile per cassazione, ex art. 111, comma 7, Cost., proprio perché si tratta di provvedimento non definitivo e privo di natura decisoria su diritti soggettivi, dal momento che nessun istante è portatore di un diritto all’altrui fallimento (Cass. 28/02/2017, n. 5069; Cass. 09/10/2015, n. 20297; Cass. 02/04/2015, n. 6683).
Va quindi affermato che anche il pubblico ministero, titolare al pari di ogni creditore (oggi ex art. 7 L.fall., come novellato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5) dell’iniziativa per la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore insolvente, può sempre riproporre l’istanza di fallimento che sia stata in precedenza respinta dal tribunale nei confronti del medesimo soggetto, pure in assenza di fatti nuovi comprovanti la sussistenza dei requisiti oggettivi o soggettivi di fallibilità dell’imprenditore e, quindi, a maggior ragione, anche nel caso in cui siano invece emersi nuovi elementi di prova, come è avvenuto nella vicenda che ci occupa, avendo l’organo pubblico dedotto in giudizio nuovi elementi indiziari tesi a dimostrare la natura fittizia del trasferimento della sede dell’impresa all’estero.
3. Il secondo e il terzo motivo, da esaminare congiuntamente stante la stretta connessione, sono infondati.
Ai sensi dell’art. 3, paragrafo 1, del Regolamento CE 29 maggio 2000, n. 1346, competenti ad aprire la procedura di insolvenza sono i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore, dovendosi presumere – per le società e le persone giuridiche – che il centro degli interessi coincida, fino a prova contraria, con il luogo in cui si trova la sede statutaria, sicché quando risulti accertata una discrepanza tra sede legale e sede effettiva, è l’ubicazione di quest’ultima a dover prevalere ed a costituire il criterio determinante della giurisdizione (Cass. s.u. 06/02/2015, n. 2243).
Sussiste, dunque, pacificamente la giurisdizione del giudice italiano sull’istanza di fallimento nei confronti di una società di capitali, già costituita in Italia, se al suo spostamento della sede legale all’estero, non abbia fatto seguito anche il trasferimento effettivo dell’attività imprenditoriale, sì da risolversi in un atto meramente formale (Cass. s.u. 17/02/2016, n. 3059).
Nella specie, il giudice del reclamo ha verificato che il trasferimento della sede della (OMISSIS) s.r.l. in Bulgaria fosse fittizio, basandosi su una serie di elementi indiziari – e principalmente sugli accertamenti espletati dalla Guardia di Finanza – già valorizzati dal primo giudice e peraltro riscontrati dal provvedimento assunto dal giudice del registro di Roma, divenuto ormai definitivo, che ebbe ad ordinare la cancellazione dell’iscrizione del trasferimento all’estero.
Resta pertanto infondata qualsivoglia doglianza riferita alla motivazione resa sul punto dalla corte romana, la quale – a differenza di quanto affermato in ricorso – non ha affatto valorizzata una “non contestazione” del fatto storico del trasferimento fittizio, da parte degli istanti, soffermandosi invece ampiamente sui ridetti elementi indiziari, ritenuti idonei a suffragare la conclusione che la sede effettiva dell’impresa fosse rimasta in Italia, con accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità.
4. Il quarto motivo è inammissibile ex art. 360-bis, n. 1), c.p.c., essendo il provvedimento impugnato conforme al consolidato orientamento di questa Corte.
È sufficiente richiamare al riguardo l’arresto delle sezioni unite di questa Corte, a tenore del quale laddove la cancellazione di una società dal registro delle imprese italiano sia avvenuta non a compimento del procedimento di liquidazione dell’ente, o per il verificarsi di altra situazione che implichi la cessazione dell’esercizio dell’impresa e da cui la legge faccia discendere l’effetto necessario della cancellazione, bensì come conseguenza del trasferimento all’estero della sede della società, e quindi sull’assunto che questa continui, invece, a svolgere attività imprenditoriale, benché in altro Stato, non trova applicazione l’art. 10 l.fall., atteso che un siffatto trasferimento, almeno nelle ipotesi in cui la legge applicabile nella nuova sede concordi sul punto con i principi desumibili dalla legge italiana, non determina il venir meno della continuità giuridica della società trasferita e non ne comporta, quindi, in alcun modo, la cessazione dell’attività, come peraltro agevolmente desumibile dal disposto degli articoli 2437, primo comma, lett. c), e 2473, primo comma, c.c. (Cass. s.u. 11/03/2013, n. 5945; Cass. 03/01/2017, n. 43).
Va soggiunto che l’accertamento della fittizietà del trasferimento che quindi non comporta il venire meno della giurisdizione del giudice italiano, né determina, come effetto di quella cancellazione, il decorso del termine di cui all’art. 10 l.fall. – non è precluso dal fatto che non sia preventivamente intervenuto, alla stregua dell’art. 2191 c.c., alcun provvedimento di segno opposto alla predetta cancellazione, atteso che per poter fornire la prova contraria alle risultanze della pubblicità legale riguardanti la sede dell’impresa, non occorre precedentemente ottenere dal giudice del registro una pronuncia che ripristini, anche sotto il profilo formale, la corrispondenza tra la realtà effettiva e quella risultante dal registro (Cass. s.u. 18/04/2013, n. 9414).
5. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.