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DIRITTO DI FAMIGLIA

Qual è la differenza tra separazione consensuale e separazione giudiziale?

La separazione consensuale è possibile soltanto se tra i coniugi viene raggiunto un accordo sulle condizioni che dovranno reggere i rapporti personali e patrimoniali reciproci e i rapporti di ciascuno con i figli. Se l’accordo non viene raggiunto, la separazione sarà inevitabilmente giudiziale, nel senso che le condizioni della separazione verranno stabilite dal tribunale. L’accordo è possibile anche durante lo svolgimento del giudizio; in tal caso, la separazione, avviata come giudiziale, verrà definita come consensuale. La separazione consensuale è preferibile poichè riduce tempi e costi, oltre a favorire rapporti più sereni tra le parti.

È vero che oggi è possibile separarsi e divorziare anche senza rivolgersi al giudice?

Sì, a partire dal dicembre 2014 è possibile separarsi, come pure divorziare evitando la procedura davanti al tribunale.

Si tratta di una procedura semplificata, denominata “negoziazione assistita”. Essa si svolge e si conclude con l’assistenza degli avvocati, i quali, una volta firmato l’accordo tra marito e moglie, trasmettono detto accordo alla Procura della Repubblica per un controllo di regolarità.

Dopodiché, l’accordo viene pubblicato nei registri dello stato civile. La separazione il divorzio si intendono perfezionati fin dal momento della firma dell’accordo.

La procedura di negoziazione assistita è possibile anche quando i coniugi hanno figli?

Sì, la separazione semplificata (e così pure il divorzio) mediante negoziazione assistita dagli avvocati è possibile anche in presenza di figli, e anche quando i figli sono minori di età oppure maggiorenni ma economicamente non autonomi, o portatori di handicap grave.

In questi casi, tuttavia, una volta che l’accordo è stato concluso e trasmesso al Procuratore della Repubblica, può accadere che il Procuratore lo ritenga non conforme all’interesse dei figli minori, e lo trasmetta al Presidente del tribunale. Questi convoca le parti entro i successivi 30 giorni.

Nel migliore dei casi, e cioè quando sia possibile raggiungere subito l’accordo, l’iter potrebbe concludersi anche in poche settimane.

Le condizioni della separazione possono essere modificate in un momento successivo?

Sì, è possibile modificare quanto già concordato in sede di separazione consensuale o deciso dal giudice. Qualora sussista l’accordo delle parti ciò può avvenire anche mediante la procedura di negoziazione assistita.

Occorre, però, che nella situazione di fatto siano intervenute variazioni che giustificano la revisione delle regole vigenti, come per esempio il trasferimento di uno dei coniugi con il figlio in una città lontana oppure il mutamento della condizione economica di uno dei due.

L’abbandono del tetto coniugale è causa di addebito della separazione?

Nel nostro Ordinamento non è più previsto il reato di abbandono del tetto coniugale. Per verificare le cause di addebito della separazione occorre valutare, tuttavia, la singola fattispecie per verificare se vi siano state condotte contrarie ai doveri nascenti dal matrimonio che rappresentino la causa della fine dell’unione coniugale.

Vorrei divorziare: cosa devo fare? A chi spetta il mantenimento?

Prima di divorziare bisogna procedere con le pratiche per la separazione, che può essere consensuale, quando c’è accordo tra i coniugi, o giudiziale, nel caso contrario. Dopo sei mesi dall’udienza di comparizione davanti al giudice della separazione se consensuale o dopo un anno se giudiziale, e sempreché sia stata pronunciata la relativa sentenza, si può chiedere il divorzio. Il divorzio comporta la fine del matrimonio, ovverossia il venir meno del vincolo coniugale.

Rimane, però, un vincolo di solidarietà sul piano economico, da cui sorge il diritto all’assegno divorzile per il coniuge che non abbia mezzi economici adeguati a conservare il tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale.

L’accertamento del giudice deve tenere conto non solo del reddito lavorativo, ma di ogni genere di entrata, compresa la titolarità di cespiti patrimoniali.

Vorrei risposarmi ma è in corso da anni la causa di separazione: posso accelerare i tempi per il divorzio?

Sì, è possibile accelerare i tempi del divorzio chiedendo, nella causa di separazione, una sentenza parziale: in tal caso, pur proseguendo la causa di separazione per definire le questioni in gioco (quali affidamento dei figli e assegno di mantenimento) è consentito introdurre contemporaneamente il giudizio per il divorzio.

In ogni caso, è imprescindibile che sia trascorso un anno dalla comparizione delle parti davanti al presidente del tribunale nel giudizio di separazione e che sia stata pronunciata sentenza definitiva di separazione in punto status.

A quale dei coniugi spetta l'assegnazione della casa familiare?

Nel nuovo assetto determinato dalla legge n. 54/2006 (cd. legge sull’affidamento condiviso), resta salvo il principio per cui la casa familiare viene assegnata tenendo conto, prioritariamente, delle esigenze dei figli. Ciò comporta che la casa venga assegnata al genitore presso il cui quale continuerà ad abitare il figlio (minorenne o maggiorenne non economicamente autonomo).

L’elemento di novità rispetto al sistema previgente è dato dalla previsione esplicita che l’assegnazione della casa all’uno o all’altro coniuge costituisce fattore di rilievo economico, di cui il giudice deve tenere conto nella determinazione dell’assetto economico della separazione.

Qualora non vi siano figli, l’abitazione familiare non può essere assegnata ad alcuno dei coniugi.

Sto per separarmi, che diritti hanno i miei figli?

La legge prevede oggigiorno, a seguito della riforma intervenuta nel 2006, l’affidamento condiviso dei figli, come regola generale.

L’affidamento condiviso è essenziale per garantire ai figli la cd. bigenitorialità, e cioè un apporto paritario, da parte dei genitori, sia sul piano relazionale-affettivo, sia sul piano educativo.

Sono possibili deroghe in casi del tutto eccezionali, tra i quali non può farsi rientrare la conflittualità tra i genitori. Se così fosse – come ha spiegato la Cassazione – l’eccezione dovrebbe diventare regola, dato l’elevatissimo numero di separazioni conflittuali.

Il mantenimento dei figli, come deve essere regolato nella separazione?

Anche per il mantenimento dei figli la riforma sull’affidamento condiviso ha apportato importanti modifiche.

Non vale più la regola per cui spetta al genitore non affidatario (generalmente il padre) corrispondere all’altro un assegno mensile, ma questo assegno – detto oggi ‘perequativo’ – è dovuto soltanto se sussista una sostanziale disparità di reddito tra i genitori. Dovrebbe valere, in generale, il criterio del mantenimento diretto.

Per determinare l’ammontare dell’ assegno perequativo, occorre poi fare riferimento ad una serie di parametri indicati dalla legge, tra cui i tempi di permanenza del figlio presso l’uno e l’altro genitore e altresì la disponibilità della casa familiare.

Mio figlio non vuole più vedermi: cosa posso fare?

Il rifiuto del figlio di incontrare uno dei genitori non è raro, e si ricollega ad una molteplicità di motivi. Tra questi va compreso talvolta il condizionamento, magari involontario, dell’altro genitore.

Quando il problema si verifica, non bisogna restare passivi, dato che più tempo passa, più è probabile che la situazione si cristallizzi. L’ordinamento contempla vari strumenti, tra i quali l’avvocato dovrà orientarsi a seconda della situazione specifica.

Talvolta, nei casi più gravi, insorge una vera e propria sindrome descritta dalla letteratura scientifica, che va sotto il nome di PAS O SAP (sindrome di alienazione parentale), e da accertarsi in sede peritale, con una consulenza tecnica.

Con la riforma del 2006 è stata introdotta la possibilità di ricorrere al giudice nel caso in cui l’altro genitore violi le disposizioni sull’affidamento condiviso, o si renda autore di gravi inadempienze: il giudice può ammonire il responsabile o comminare a suo carico una sanzione pecuniaria o anche condannarlo al risarcimento del danno arrecato al figlio e/o al coniuge.

Cosa posso fare se il genitore non versa il mantenimento e/o le spese straordinarie?

Nel caso di inadempimento rispetto all’obbligo di mantenimento è necessario procedere al recupero mediante atto di precetto (procedura agile e soprattutto efficace nel caso di lavori dipendenti), nel caso di mancata corresponsione della quota di spese straordinarie sostenute per i figli, è necessario invece agire con ricorso per decreto ingiuntivo. In caso di persistenza nell’inadempimento, è possibile ottenere il recupero coattivo delle somme dovute mediante pignoramento (mobiliare, immobiliare o presso terzi), nonché ottenere strumenti di tutela futura (ad esempio il sequestro di beni del genitore obbligato).

Dubito seriamente che il bambino che porta il mio cognome non sia mio figlio: che fare?

In tal caso, è possibile chiedere il disconoscimento della paternità. Il relativo giudizio è volto ad accertare, mediante prove testimoniali ed esami emato-genetici la sussistenza del rapporto di filiazione tra il minore e colui che allo stato è il padre legittimo.

A cosa serve l’amministrazione di sostegno?

L’amministrazione di sostegno è una misura di protezione, introdotta con la legge n. 6 del 2004, che ha lo scopo di tutelare le persone prive in tutto o in parte di autonomia, senza però mortificarle.

L’ amministrazione di sostegno interviene, in altri termini, a supporto di quei soggetti che non appaiono in grado di (o che incontrano serie difficoltà nel) compiere gli atti e le operazioni della vita quotidiana e di curare i propri interessi.

L’amministratore di sostegno è, dunque, una persona nominata dal giudice tutelare che affianca o, a seconda dei casi, sostituisce il cd. beneficiario nel compimento degli atti della vita di ogni giorno.

Quali sono i soggetti che possono beneficiare dell’amministratore di sostegno?

Destinatari dell’amministrazione di sostegno sono gli individui portatori di un disagio (dovuto all’età avanzata, o ad una malattia o ad una invalidità fisica o psichica, o di natura sensoriale) che rende loro arduo, nella quotidianità, far fronte al concreto svolgimento di una o più attività.

Chi può essere nominato amministratore di sostegno?

Di norma vengono preferite persone legate da parentela con il beneficiario, ma può essere anche designata una persona estranea che venga ritenuta idonea a garantire il rispetto degli interessi del soggetto bisognoso. In ogni caso, non si richiedono competenze specifiche per svolgere l’incarico.

L’amministratore di sostegno ha diritto ad un compenso?

L’amministratore di sostegno non potrebbe, in teoria, percepire alcun compenso per l’incarico: possono essergli riconosciuti soltanto un rimborso delle spese e, in taluni casi, un equo indennizzo stabilito dal giudice tutelare, in relazione al tipo di attività, in particolare a seconda dell’ entità del patrimonio e della difficoltà dell’ amministrazione.

Può l’amministratore di sostegno compiere attività non previste al momento della nomina?

No, i compiti dell’amministratore di sostegno vengono analiticamente stabiliti nel decreto di nomina, emesso dal giudice tutelare. Egli deve attenersi scrupolosamente a tali indicazioni. Se si presenta la necessità di porre in essere atti non previsti nel decreto, l’ amministratore di sostegno deve rivolgersi al giudice e chiedere l’autorizzazione, nell’interesse esclusivo del beneficiario.

Quanto tempo dura l’incarico di amministratore di sostegno?

La durata varia a seconda dei casi. Spetta al giudice valutare se disporre una nomina a tempo indeterminato o per un tempo determinato. E’ sempre possibile la proroga successiva allo scadere del tempo inizialmente stabilito.

DIRITTO CIVILE

Cos’è il processo civile?

In breve possiamo affermare che il processo civile è quello strumento messo a disposizione dall’Ordinamento per risolvere le “liti” tra cittadini.

Come si inizia un processo civile?

Il processo si attiva su impulso di una parte che, mediante apposito atto (citazione o ricorso), indica quali sono le proprie rivendicazioni, formulando apposite richieste all’Autorità Giudiziaria che dovrà decidere.

È vero che il Giudice di Pace tratta le cause più semplici, mentre il Tribunale si occupa delle questioni più complesse?

No. Le regole per la competenza non fanno distinzione tra cause “semplici” e cause “complesse”. La differenza è fatta in base al valore delle richieste oppure ripartita tra GdP e Tribunale in base a specifiche materie.

L’art. 7 del codice di procedura civile dispone che “il Giudice di pace è competente per le cause relative a beni mobili di valore non superiore a 5.000,00 euro, quando dalla legge non sono attribuite alla competenza di altro giudice”. Il Giudice di pace è altresì competente per le cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e natanti purché il valore della controversia non superi 20.000,00 euro. Inoltre, a prescindere dal valore della causa, è competente in alcune materie attribuitegli espressamente. Trattasi, in particolare, delle cause relative ad apposizioni di termini ed osservanza delle distanze stabilite dalla legge, dai regolamenti o dagli usi riguardo al piantamento di alberi e siepi, delle cause relative alla misura ed alle modalità d’uso dei servizi di condominio di case ed infine di quelle attinenti i rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione in materia di immissioni di fumo o di calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili propagazioni che superino la normale tollerabilità.

Quanto dura un processo civile?

E’ molto difficile prevedere la durata di un processo. Infatti se pure il codice di procedura civile delinea un iter processuale “standard ” con propri tempi ed udienze è possibile che lo stesso venga dilatato a causa di rinvii processuali per tentare una conciliazione fra le parti, o per consentire al CTU, ove ne sia stato richiesto l’intervento, di redigere la propria relazione. Ancora, la fase istruttoria, vero e proprio cuore del processo, può essere breve o pressoché inesistente, se la causa è basta solo su prove documentali, o molto lunga se ci sono numerosi testi da sentire. Ad ogni modo, mediamente, un processo in primo grado dura tra i due ed i quattro anni. Per questo, se possibile, è opportuno valutare la possibilità di una soluzione transattiva.

Per quanto riguarda la fase di Appello, le tempistiche dipendono quasi esclusivamente dal carico di lavoro dell’autorità giudiziaria competente.

Perché bisogna “pagare” per poter fare una causa?

L’Ordinamento, anche al fine di prevenire inutili contenziosi, con conseguente sovraccarico ed intasamento dei Tribunali pone, a carico di chi agisce in giudizio alcuni oneri. Tali oneri sono sostanzialmente il pagamento del Contributo Unificato, ovvero una somma di denaro calcolata in base al valore della causa, e l’imposta di bollo, ovvero una marca fissa di importo pari ad € 27,00. Tali esborsi consentono alla macchina della giustizia di sostenersi e vengono generalmente posti a carico della parte soccombente all’esito del giudizio.

In caso di vittoria si recuperano tutte le spese sostenute?

La risposta a questa domanda è complessa. In linea teorica e di principio l’Ordinamento prevede che tutti i costi (comprese le parcelle degli avvocati) siano posti a carico della parte soccombente. Può tuttavia accadere che il Giudice, in presenza di determinate condizioni – ritenga opportuna la cosiddetta “compensazione” delle spese. Ciò comporta che, pur in caso di vittoria – o di parziale vittoria – ciascuna parte si faccia carico delle spese sostenute nel proprio interesse.

Il quadro cambia all’atto pratico, soprattutto quando la controparte, seppur condannata alla refusione delle spese, sia di fatto insolvente.

Che garanzie di vittoria esistono?

L’avvocato non può fornire nessun tipo di garanzia di vittoria al proprio assistito. Per questo motivo, nell’impostazione di una causa, è bene conoscere sempre quali sono i possibili esiti – anche da un punto di vista economico.

Quali sono i possibili esiti di una causa civile?

Il Giudice può accogliere, così come respingere,  tutte le richieste formulate. Può inoltre accogliere o respingere PARZIALMENTE le domande svolte. La regolazione delle spese di lite segue generalmente l’esito della causa e pertanto potremmo avere:

  1. sentenza di pieno accoglimento con condanna alla controparte di pagamento delle spese di lite
  2. sentenza di pieno rigetto, con condanna al pagamento delle spese
  3. sentenza di parziale accoglimento (o parziale rigetto), con regolazione delle spese frazionata tra le parti in ragione della parziale soccombenza.

Quanto costa una causa civile?

Lo Studio legale Fronzoni aderisce alla delibera dell’unione triveneta dei consigli dell’Ordine degli Avvocati in materia di accordi trasparenti.

E pertanto forniamo al cliente il preventivo dei compensi  facendo riferimento ai parametri previsti dal Decreto del Ministero della Giustizia n. 55/2014 (pubblicato nella G.U. n.77 del 2 aprile 2014) e proponendo modalità di pagamento adeguate al tipo di procedura  ed alle esigenze del cliente stesso.

Ci sono delle regole a cui gli avvocati, nello svolgere la propria professione, devono attenersi?

Esiste un codice deontologico che stabilisce le regole a cui avvocati e praticanti devono attenersi nella loro attività, nei loro reciproci rapporti e nei confronti di terzi. La violazione delle norme del codice deontologico può comportare l’applicazione di sanzioni disciplinari.

L’avvocato ha un dovere di informazione nei confronti del proprio assistito?

L’art. 40 del codice deontologico stabilisce che “l’avvocato è tenuto ad informare chiaramente il proprio assistito all’atto dell’incarico delle caratteristiche e dell’importanza della controversia o delle attività da espletare, precisando le iniziative e le ipotesi di soluzioni possibili. L’avvocato è tenuto altresì ad informare il proprio assistito sullo svolgimento del mandato affidatogli, quando lo reputi opportuno e ogni qualvolta l’assistito ne faccia richiesta. Se richiesto è obbligo dell’avvocato a informare la parte assistita sulle previsioni di massima inerenti alla durata e ai costi presumibili del processo”.

Si può stare in giudizio senza l’assistenza di un avvocato?

Solo nelle cause davanti al giudice di pace il cui valore non eccede 1.100,00 euro e nelle cause di lavoro il cui valore non eccede 129,11 euro. Inoltre, possono stare in giudizio personalmente nei procedimenti di separazione consensuale. In tutti gli altri casi occorre farsi rappresentare da un legale.

FALLIMENTO

Chi è soggetto al fallimento?

In base all’art. 1 del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, come modificato dal D.Lgs. 12 Settembre 2007, n. 169, sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici.

Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti:

  1. aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;
  2. aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila;
  3. avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.

I limiti previsti possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della giustizia, sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati intervenute nel periodo di riferimento.

È inoltre previsto, all’articolo 15, comma 9, che non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro trentamila. Tale importo è periodicamente aggiornato.

Chi sono i soggetti legittimati a richiedere il fallimento?

La dichiarazione di fallimento può essere promossa (art. 6 L.F.):

  • su ricorso di uno o più creditori
  • su richiesta dello stesso debitore in stato di insolvenza
  • su istanza del Pubblico Ministero quando ravvisi e provi un interesse generale di tutti i creditori

Competente a decidere sulla richiesta di fallimento è il tribunale del luogo ove l’imprenditore ha la sede principale dell’impresa (art. 9 L.F.).

Quali sono i presupposti per richiedere il fallimento di un'impresa?

Per richiedere il fallimento di un’impresa devono sussistere due condizioni:

  • la natura di imprenditore commerciale (privato e non pubblico) del debitore (presupposto soggettivo)
  • lo stato di insolvenza dello stesso debitore (art. 5 LO.F., presupposto oggettivo)

Accanto a questi presupposti, che possono definirsi positivi, ne esistono altri di carattere negativo, quali:

  • che l’imprenditore commerciale non sia già soggetto ad una procedura di liquidazione coatta amministrativa
  • che l’imprenditore non abbia fatto domanda di concordato preventivo o di amministrazione controllata
  • che non sussistano i presupposti per assoggettare l’impresa alla procedura di amministrazione straordinaria

.

È possibile opporsi alla richiesta di fallimento?

A seguito della presentazione del ricorso per la dichiarazione di fallimento viene dato inizio, da parte del tribunale, ad un procedimento definito di istruttoria prefallimentare, nel quale vengono analizzati i presupposti in base ai quali è stata presentato il ricorso e le eventuali opposizioni. La procedura è analiticamente descritta all’interno dell’art. 15 Legge Fallimentare.

Il procedimento per la dichiarazione di fallimento si svolge dinanzi al tribunale in composizione collegiale con le modalità dei procedimenti in camera di consiglio.

Il tribunale convoca il debitore ed i creditori istanti per il fallimento. Nel procedimento interviene il pubblico ministero che ha assunto l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento.

Il tribunale, ad istanza di parte, può emettere i provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio o dell’impresa oggetto del provvedimento, che hanno efficacia limitata alla durata del procedimento e vengono confermati o revocati dalla sentenza che dichiara il fallimento, ovvero revocati con il decreto che rigetta l’istanza.

Quali sono gli effetti della dichiarazione di fallimento?

La sentenza che dichiara il fallimento produce una serie di effetti di natura privata, processuale e penale, tanto nei confronti del fallito, quanto riguardo ai creditori e ai terzi.

  1. NEI CONFRONTI DEL FALLITO

Gli effetti per il fallito sono disciplinati dagli artt. 42-49 della legge fallimentare, così come modificata dalla novella del 2006.

Sostanzialmente, il fallito viene privato, a far data dalla dichiarazione di fallimento, della disponibilità e dell’amministrazione dei suoi beni, anteriori al fallimento e quelli che dovessero provenirgli durante la procedura.

A norma dell’art. 46 non sono compresi nel fallimento:

  1. i beni ed i diritti di natura strettamente personale;
  2. gli assegni aventi carattere alimentare, gli stipendi, pensioni, salari e ciò che il fallito guadagna con la sua attività entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della famiglia;
  3. i frutti derivanti dall’usufrutto legale sui beni dei figli, i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi, salvo quanto è disposto dall’articolo 170 del codice civile;
  4. le cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge.

I limiti previsti nel primo comma, n. 2), sono fissati con decreto motivato del giudice delegato che deve tener conto della condizione personale del fallito e di quella della sua famiglia.

L’art. 44 dispone che tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori.

Sono egualmente inefficaci i pagamenti ricevuti dal fallito dopo la sentenza dichiarativa di fallimento.

Fermo quanto previsto dall’articolo 42, secondo comma, sono acquisite al fallimento tutte le utilità che il fallito consegue nel corso della procedura per effetto degli atti di cui al primo e secondo comma.

A norma dell’art. 48 il fallito persona fisica è tenuto a consegnare al curatore la propria corrispondenza di ogni genere, inclusa quella elettronica, riguardante i rapporti compresi nel fallimento.

L’art. 49 dispone che l’imprenditore del quale sia stato dichiarato il fallimento, nonché gli amministratori o i liquidatori di società o enti soggetti alla procedura di fallimento sono tenuti a comunicare al curatore ogni cambiamento della propria residenza o del proprio domicilio.

Se occorrono informazioni o chiarimenti ai fini della gestione della procedura, i soggetti di cui al primo comma devono presentarsi personalmente al giudice delegato, al curatore o al comitato dei creditori.

In caso di legittimo impedimento o di altro giustificato motivo, il giudice può autorizzare l’imprenditore o il legale rappresentante della società o enti soggetti alla procedura di fallimento a comparire per mezzo di mandatario.

È importante notare che nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore. Il fallito può intervenire nel giudizio solo per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico o se l’intervento è previsto dalla legge. L’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo.(Art. 43 L.F.)

  1. NEI CONFRONTI DEI CREDITORI
  • Il fallimento apre il concorso dei creditori
  • I debiti pecuniari e non pecuniari del fallito si considerano scaduti, agli effetti del concorso, alla data di dichiarazione del fallimento
  • Le somme spettanti ai creditori condizionati vengono accantonate
  • La dichiarazione di fallimento sospende il corso degli interessi convenzionali o legali per gli effetti del fallimento
  • I crediti infruttiferi subiscono una decurtazione qualora il riparto avvenga prima della loro scadenza
  • Sono precluse le azioni individuali dei creditori sui beni del fallito (art. 51 L.F.)

III. NEI CONFRONTI DEI TERZI (v. revocatoria fallimentare)

  • Gli atti a titolo oneroso (nonché i pagamenti e le garanzie) compiuti dal fallito nell’anno antecedente alla dichiarazione di fallimento e che presentino delle irregolarità (ad es. la vendita di un bene ad un prezzo sensibilmente inferiore al valore di mercato) sono dichiarati inefficaci e revocati
  • Gli atti a titolo oneroso (nonché i pagamenti e le garanzie) compiuti dal fallito nei sei mesi antecedenti alla dichiarazione di fallimento che non presentino delle irregolarità, quando il curatore provi che l’altra parte era a conoscenza dello stato di insolvenza, sono dichiarati inefficaci e revocati
  • Gli atti che non rientrano nelle categorie precedenti possono essere revocati con l’azione ordinaria di cui all’art. 2901 c.c.

Nell’ambito di una procedura fallimentare, il curatore svolge una pluralità di compiti ad esso assegnati dalla legge.

In tal senso, l’art. 31 comma 1 L.F. dispone che il curatore ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite.

A seguito della propria nomina, il curatore è tenuto a numerosi incombenti previsti espressamente agli artt. 33, 34 e 35 L.F.

Per quanto riguarda le responsabilità del curatore, l’art. 38 L.F. prevede che il curatore adempia ai doveri del proprio ufficio, imposti dalla legge o derivanti dal piano di liquidazione approvato, con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico. Egli deve tenere un registro preventivamente vidimato da almeno un componente del comitato dei creditori, e annotarvi giorno per giorno le operazioni relative alla sua amministrazione. Durante il fallimento l’azione di responsabilità contro il curatore revocato è proposta dal nuovo curatore, previa autorizzazione del giudice delegato, ovvero del comitato dei creditori. Il curatore che cessa dal suo ufficio, anche durante il fallimento, deve rendere il conto della gestione a norma dell’articolo 116 L.F.

Il fallito può continuare l'impresa?

L’art. 104 L.F. in merito dispone che Con la sentenza dichiarativa del fallimento, il tribunale può disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa, anche limitatamente a specifici rami dell’azienda, se dalla interruzione può derivare un danno grave, purché non arrechi pregiudizio ai creditori.

Successivamente, su proposta del curatore, il giudice delegato, previo parere favorevole del comitato dei creditori, autorizza, con decreto motivato, la continuazione temporanea dell’esercizio dell’impresa, anche limitatamente a specifici rami dell’azienda, fissandone la durata.

Durante il periodo di esercizio provvisorio, il comitato dei creditori è convocato dal curatore, almeno ogni tre mesi, per essere informato sull’andamento della gestione e per pronunciarsi sull’opportunità di continuare l’esercizio.

Se il comitato dei creditori non ravvisa l’opportunità di continuare l’esercizio provvisorio, il giudice delegato ne ordina la cessazione.

Ogni semestre, o comunque alla conclusione del periodo di esercizio provvisorio, il curatore deve presentare un rendiconto dell’attività mediante deposito in cancelleria. In ogni caso il curatore informa senza indugio il giudice delegato e il comitato dei creditori di circostanze sopravvenute che possono influire sulla prosecuzione dell’esercizio provvisorio.

Il tribunale può ordinare la cessazione dell’esercizio provvisorio in qualsiasi momento laddove ne ravvisi l’opportunità, con decreto in camera di consiglio non soggetto a reclamo sentiti il curatore ed il comitato dei creditori.

Durante l’esercizio provvisorio i contratti pendenti proseguono, salvo che il curatore non intenda sospenderne l’esecuzione o scioglierli.

I crediti sorti nel corso dell’esercizio provvisorio sono soddisfatti in prededuzione.

Cos'è la liquidazione coatta amministrativa?

L’istituto della liquidazione Coatta Amministrativa, disciplinato dagli artt. 194-215 L.F., nonché da numerose leggi speciali, è previsto per particolari categorie di imprese (banche, imprese assicurative, consorzi obbligatori, società di revisione e fiduciarie, S.I.M. ecc.), per gli interessi che soddisfano, o perché partecipate dallo Stato. I presupposti per l’applicazione di tale procedura sono vari, individuati dalla Legge Fallimentare e dalle leggi speciali. Anche la liquidazione stessa delle imprese avviene, non da parte dell’autorità giudiziaria, ma di quella amministrativa.

MEDIAZIONE TRASFORMATIVA

La mediazione trasformativa aiuta a risolvere le controversie?

L’obiettivo del mediatore trasformativo è quello di sostenere le trasformazioni potenziali dell’interazione tra le parti durante il conflitto favorendo l’empowerment e il riconoscimento. Il mediatore interviene per dare supporto alla capacità delle parti di prendere decisioni in maniera informata e alla loro comprensione reciproca.

I mediatori trasformativi incoraggiano il raggiungimento di accordi autentici, volontari e pienamente consapevoli, che emergano nei tempi e nei modi che le parti stesse ritengono più appropriati: raggiungere un accordo è soltanto una delle decisioni possibili tra cui le parti possono scegliere.

La mediazione trasformativa è efficace anche nei conflitti in cui le parti non mantengono più rapporti dopo la mediazione?

L’approccio trasformativo Parte dall’assunto che tutte le interazioni tra esseri umani abbiano importanza in quanto relazioni interpersonali, indipendentemente dalla loro durata.

Una trasformazione produttiva dell’interazione conflittuale permette alle parti di acquisire una maggiore chiarezza nelle proprie scelte e decisioni (empowerment) alla luce dell’esperienza dell’altro (riconoscimento) in ogni contesto. E la qualità raggiunta nell’interazione conflittuale durante una mediazione ha un impatto diretto sui risultati dell’incontro anche nel caso in cui le parti non avranno più niente a che fare l’una con l’altra.

Perché il mediatore trasformativo resta inattivo per gran parte dell’incontro?

I mediatori trasformativi non sono direttivi; sono proattivi.

Il loro ascolto attento è rivolto a cogliere segnali di opportunità per l’empowerment e il riconoscimento, mettono in evidenza tali opportunità, incoraggiando costantemente le parti ad impegnarsi in un dialogo costruttivo, a considerare le informazioni nuove e punti di vista alternativi, ad acquisire maggiore chiarezza, a deliberare o “riflettere ad alta voce”, ed a prendere decisioni in modo autonomo.

Quale struttura hanno gli incontri di mediazione trasformativa?

Il mediatore che opera a partire da un orientamento trasformativo non impone un procedimento rigidamente strutturato: l’approccio trasformativo parte dall’assunto che il mediatore non debba imporre una struttura alle parti, ma che le parti siano capaci di strutturare la conversazione da sé nella misura in cui ne hanno bisogno.

Il mediatore aiuta le parti a determinare il modo in cui organizzare l’interazione, concentrandosi sull’empowerment e sul riconoscimento.

PRATICA COLLABORATIVA

La pratica collaborativa è percorribile anche nelle situazioni di accesa conflittualità?

E’ a maggior ragione consigliabile nelle situazioni complesse e/o conflittuali, per evitare le classiche degenerazioni del conflitto, a tutela dei figli ma anche delle parti stesse.
E’ necessaria in ogni caso la volontà e la capacità di entrambe le parti di aderire ai principi esposti e di mantenere il rispetto dell’altra persona.
Nel corso della procedura sono inevitabili momenti difficili in cui possono emergere toni alterati, rabbia e sfiducia nell’altra parte, ma ci si trova in un percorso studiato proprio per contenere ed affrontare anche tutte le difficoltà. Per esempio, il fatto di poter tornare a riflettere sui principi condivisi e sui vantaggi offerti dalla scelta procedurale effettuata aiuta molto a superare le situazioni di impasse.

Per quale motivo dovrei accettare di rivelare all’altra parte delle informazioni a lei sconosciute, se questo potrebbe favorirla e/o ostacolare il raggiungimento dei miei obiettivi?

Si tratta di modificare profondamente la tradizionale concezione della “trattativa”, rinunciando ai tatticismi ed alle strategie in favore di altri punti di forza.
La forza della pratica collaborativa sta proprio nella condivisione leale di tutte le informazioni rilevanti, elemento centrale per l’acquisizione della fiducia reciproca e quindi per una costruttiva collaborazione volta al raggiungimento di accordi in cui non vi sia un vincitore e un vinto, ma una comune soddisfazione.
Senza il timore di essere tenute all’oscuro di elementi rilevanti, e senza la pressione delle minacce di ricorsi all’Autorità giudiziaria, entrambe le parti riescono ad attuare una migliore gestione delle emozioni e quindi a maturare soluzioni creative che mai potrebbero nascere in un clima di tatticismi.

Quanto è elevato il rischio di non riuscire a raggiungere un accordo e di dover perciò poi ricorrere all’alternativa contenziosa, magari anche dopo un notevole lasso di tempo?

Nell’esperienza straniera, e anche nella recente casistica italiana, le percentuali di fallimento sono molto basse.
Si ritiene che il successo di questa pratica sia connesso al fatto che si tratta di un lavoro di squadra in cui gli interessi di tutti i partecipanti convergono verso il raggiungimento di un unico obiettivo, ovvero il raggiungimento di un accordo condiviso che soddisfi gli interessi di entrambi.
In ogni caso, le prime tappe del procedimento prevedono l’individuazione delle priorità di ciascuna delle parti e la gestione delle eventuali urgenze, anche attraverso la stipulazione di accordi temporanei o parziali.
Pertanto, una parte del lavoro svolto può rivelarsi utile anche nel caso in cui il procedimento venga interrotto, soprattutto se nel corso del tempo sono stati sottoscritti accordi parziali ma definitivi, la cui efficacia perdura quindi anche a seguito dell’interruzione.

Quali sono i tempi e i costi della pratica collaborativa?

I tempi dipendono ovviamente dalla complessità della situazione ed anche dalla volontà delle parti, che possono scegliere insieme di gestire le urgenze e poi rallentare per ponderare le decisioni definitive, oppure accelerare il lavoro, prendersi delle eventuali pause, a seconda delle necessità.
I costi vengono concordati al momento del conferimento dell’incarico, come ormai per qualsiasi altro tipo di pratica, ma non sono diversi da quelli propri di una assistenza più tradizionale.